Partito di Alternativa Comunista

Donne lavoratrici ai tempi del Coronavirus La dura vita di educatrici e infermiere

Donne lavoratrici ai tempi del Coronavirus

La dura vita di educatrici e infermiere

 

Intervista a cura della redazione web

 

 

 

Il Coronavirus non colpisce tutti allo stesso modo. Ci sono alcuni settori di lavoro che pagano un prezzo più caro di altri, sia in termini di rischio di contagio (pensiamo ad esempio ai lavoratori della sanità o agli operai delle fabbriche ancora aperte) sia in termini di danno economico. Non casualmente, alcuni dei settori più colpiti hanno una maggioranza di manodopera femminile. Se già di norma le donne vengono impiegate nelle mansioni peggio retribuite (il gap salariale tra uomini e donne, in Italia e nel mondo, è ancora molto alto), nelle situazioni di emergenza sono le prime ad essere dimenticate dallo Stato e dai governi. Il fatto stesso che la cura dei figli e il lavoro domestico gravi sulle spalle delle donne si traduce oggi in molti casi in una situazione invivibile, con donne costrette a conciliare il lavoro (sia esso svolto sul luogo di lavoro o in “smart working”) con una faticosissima gestione della prole (dato che asili e scuole sono chiusi). Tante donne, inoltre, sono rinchiuse in casa con mariti o conviventi violenti: persino l’Onu ha previsto un ulteriore aumento dei femminicidi nel contesto dato.
Con questa intervista, vogliamo soffermarci in particolare sulla condizione di alcune donne lavoratrici di cui poco si parla, ma che stanno affrontando una situazione drammatica. E che, probabilmente, se anche riusciranno a sopravvivere all’epidemia, dovranno poi affrontare una situazione molto difficile dal punto di vista del loro equilibrio psichico. Ne parliamo con Moira Aloisio, attivista sindacale della Cub di Roma.

 

Moira, tu da attivista sindacale segui in particolare il settore dei servizi. E’ un settore in cui c’è un’alta percentuale di donne impiegate. A tuo avviso perché?

Per una serie di motivi, culturali, sociali ed economici. In primo luogo la scelta del lavoro rispecchia la concezione patriarcale della società e della famiglia, secondo la quale si ritiene che le donne siano più adatte alle attività di cura e di relazione. In secondo luogo le donne hanno più difficoltà di accesso al lavoro e spesso, alla nascita di un figlio, sono costrette a licenziarsi, per cui, quando rientrano nel mondo del lavoro, devono accontentarsi di attività di ripiego, non in linea con il livello di istruzione.
Inoltre, hanno necessità di svolgere attività che possano essere conciliabili con il lavoro domestico, che è quasi esclusivamente a loro carico.
Tutto ciò determina una sorta di segregazione: la maggioranza delle donne svolge attività a basso valore aggiunto e quindi a bassa retribuzione, caratterizzate da contratti precari, part-time involontari di pochissime ore settimanali, con scarse possibilità di avanzamenti di carriera.

 

Parliamo delle educatrici che lavorano nelle scuole. Sono una risorsa preziosa, ma sono assunte con contratti di lavoro che non danno il giusto riconoscimento al loro lavoro: stipendi bassi, orari di lavoro molto impegnativi, ecc. Oggi con le scuole chiuse com’è la condizione di queste lavoratrici?

Il servizio di integrazione scolastica, pur essendo fondamentale per garantire il diritto allo studio di alunne e alunni con disabilità, non ha il riconoscimento che meriterebbe. Il servizio viene gestito a livello locale, dai singoli Comuni, che lo affidano in appalto a cooperative sociali, le quali applicano contratti spesso precari, part time, con salari bassissimi; nei mesi estivi, in cui il servizio è sospeso, gli operatori non hanno diritto alla retribuzione. Lo stesso accade quando il bambino è assente per più di un giorno, oppure la scuola è chiusa per qualsiasi motivo. Non hanno diritto nemmeno ad usufruire del pasto, che invece viene riconosciuto agli insegnati della primaria, sebbene debbano accompagnare quotidianamente il bambino a mensa. Dal 5 marzo, giorno di chiusura delle scuole, l’attività è sospesa. Il Decreto Cura Italia, all’art. 48, autorizza le Amministrazioni a pagare per intero le fatture, ma chiede che i servizi vengano rimodulati; la formulazione poco chiara del testo ha creato molta confusione per cui, ad oggi, alcuni Comuni hanno chiesto di convertire le ore in assistenza domiciliare, altri garantiscono solo il 50% delle ore, inserendole nella didattica a distanza, altri ancora non hanno attivato alcuna riprogrammazione. Ciò ha prodotto una disparità di trattamento sia tra i lavoratori che tra gli utenti. Il Comune di Roma, nonostante i numerosi solleciti che abbiamo inviato come sindacato, non si è ancora pronunciato. Pertanto le operatrici e gli operatori non sanno ancora come e quando saranno retribuiti, né quali attività dovranno svolgere, mentre i bambini hanno difficoltà a seguire le lezioni, non potendo usufruire del necessario supporto.

 

Che rivendicazioni avanzano? E che possibilità hanno di far sentire la loro voce?

Da anni gli educatori lottano per la reintroduzione della propria figura professionale nei ruoli pubblici, affinché venga riconosciuta la dignità del lavoro che svolgono. In questa fase di emergenza sanitaria, sostenuti dai sindacati di base, rivendicano il diritto ad essere retribuiti integralmente, anche per le ore che non sono state effettuate a causa della chiusura delle scuole, chiedono che le Amministrazioni si attivino per riprogrammare, in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale, le ore di assistenza, inserendo gli educatori nelle classi virtuali. Non sono d'accordo invece a convertire il servizio in assistenza domiciliare, che ha caratteristiche professionali non assimilabili all’inclusione scolastica, oltre a costituire una fonte di rischio sia per gli operatori che per gli utenti.

 

La situazione è poi drammatica per le operatrici che lavorano nelle strutture per anziani, dove si registra una percentuale altissima di contagi. Come sono oggi le condizioni di lavoro del personale di queste strutture?

Le strutture per anziani, sia quelle sanitarie che quelle di tipo assistenziale, stanno diventando focolai del contagio. In questo momento le operatrici sociali stanno pagando un prezzo molto alto: i carichi di lavoro sono molto pesanti, sono costrette a turni massacranti per sostituire i colleghi malati o in quarantena e sono costantemente sotto stress, sia per il timore di essere contagiate, sia per la preoccupazione di essere veicolo di contagio per gli anziani. In queste strutture, oltre al personale sanitario e assistenziale, c’è il personale, anch’esso in gran parte femminile, che svolge tutti i servizi accessori (pulizie, mensa, lavanderia, manutenzione) che vive la stessa drammatica situazione e che quasi mai ha un’adeguata formazione sul rischio biologico in caso di epidemia.
In alcune regioni nelle strutture per anziani si contano tantissimi morti tra gli ospiti e centinaia di contagi tra gli operatori. Come sindacato, abbiamo chiesto che tutto il personale venga sottoposto a screening periodico, attraverso il test sierologico o il tampone, essendo ormai provato che anche gli asintomatici possono trasmettere l’infezione.

 

Secondo te i dispositivi di protezione messi a disposizione del personale sono efficaci? E cosa chiedono le lavoratrici?

Quasi mai. Quando va bene vengono fornite mascherine chirurgiche, che, come sappiamo, non proteggono chi le indossa. Le forniture sono sempre insufficienti e le operatrici sono costrette a lavare e sterilizzare le poche mascherine che hanno a disposizione. Raramente viene fatta una formazione adeguata sull’uso dei dispositivi, che, se non usati correttamente, rischiano di diventare veicolo del contagio. Mancano i dispositivi che possano proteggere in caso di contatto con persone malate (mascherine fp2 o ffp3, tute, camici idrorepellenti, occhiali, ecc.).
Ancora più difficile è la situazione delle assistenti domiciliari, che devono svolgere anche tre o quattro servizi al giorno, venendo a contatto con altrettanti nuclei familiari, con un solo paio di guanti e una mascherina. Un rischio enorme per poche centinaia di euro al mese.

 

Sei in contatto anche con donne che lavorano nel settore della sanità? Cosa ti raccontano?

Gli ospedali stanno pagando, oggi, le scellerate scelte politiche degli ultimi trent’anni. Mancano i posti letto, manca il personale, sia medico che infermieristico, mancano gli strumenti, mancano linee guida uniformi, dal momento che sanità è gestita a livello regionale. I giornali dipingono gli operatori sanitari come angeli o eroi, una retorica stomachevole che nasconde le responsabilità del sistematico smantellamento del sistema sanitario nazionale. Il personale medico e infermieristico sta lavorando su turni massacranti, per far fronte all’emergenza, moltissimi si stanno ammalando e di contano già parecchi morti. Questa epidemia sta facendo emergere drammaticamente tutte le contraddizioni di un sistema che ha anteposto il profitto al diritto alla salute.

 

Ai tempi del Coronavirus una donna lavoratrice dopo aver rischiato il contagio sul luogo di lavoro non può nemmeno permettersi “il lusso” di tornare a casa e riposare. Che impressione ti sei fatta sulla condizione di queste donne lavoratrici tra le mura domestiche?

Molte donne raccontano che in questo periodo il loro lavoro si è triplicato: oltre a quello retribuito, con tutti i rischi che comporta, devono occuparsi della casa, dei figli che non vanno a scuola, dei familiari anziani, che in questo momento necessitano di molte attenzioni; inoltre, dal momento che già escono per recarsi a lavoro, spetta a loro anche la spesa.
Per alcune donne, poi, la casa non è affatto un luogo sicuro. Penso a quelle donne che vivono relazioni violente, per le quali le mura domestiche sono una prigione. I centri antiviolenza sono aperti, ma ovviamente è difficile riuscire a chiamare quando si vive costantemente sotto il controllo del proprio aguzzino.

 

Pensi che il sistema capitalistico sia possibile garantire una reale liberazione della donna?

Il capitalismo si nutre di disuguaglianze. Io credo che non si possa separare la questione di genere dalla questione di classe; la liberazione della donna non può ridursi all’occupazione di posti di potere, nella politica o nelle aziende. Rompere il cosiddetto “soffitto di cristallo” non può portare alcun miglioramento nella società, se lascia inalterata la struttura sociale basata sull’oppressione e sullo sfruttamento e non risolve i problemi che milioni di donne, appartenenti alla classe lavoratrice, incontrano quotidianamente, fuori e dentro le mura domestiche. La vera liberazione delle donne può essere conquistata solo attraverso la lotta unitaria della classe lavoratrice, contro tutte le oppressioni, contro lo sfruttamento sul lavoro, contro ogni razzismo, per il diritto alla salute e la tutela dell’ambiente.

 

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