Partito di Alternativa Comunista

Birmania: traballa il regime militare

Birmania: traballa il regime militare
Una protesta di massa  mette in  pericolo il sanguinario  regime
 
di Alberto Madoglio
 
Le proteste di massa che da giorni stanno infiammando diverse città di Myanmar (la Birmania), hanno costretto tutti i mezzi d’informazione a interessarsi delle sorti di un Paese del quale fino a poco tempo fa non si erano mai preoccupati.
 
La nascita della dittatura militare
Alla fine della seconda guerra mondiale è iniziato nel Paese un vasto movimento popolare, diretto dalla Lega delle Persone Antifasciste (un fronte popolare in cui partecipava anche il locale Partito Comunista), il cui principale dirigente era Aung San (padre di Aung San Suu Kyi, leader della Lega Nazionale per la Democrazia, Lnd, conosciuta all’estero come la maggiore esponente dell’opposizione al regime militare e oggi agli arresti domiciliari), che dopo una lotta di due anni ha posto fine alla dominazione inglese.
Aung San è stato assassinato nel 1947. Nel 1962, dopo un lungo periodo di instabilità e di mobilitazione studentesche, vi è stato un golpe militare che ha instaurato una feroce dittatura.
Da allora, la giunta militare al potere, lungi dall’avere intrapreso una sorta di "via birmana al socialismo" (come tutta la stampa borghese vorrebbe farci credere), ha ridotto in miseria e schiavitù cinquanta milioni di cittadini, proibendo partiti politici e sindacati indipendenti.
Oggi il Paese, pur essendo molto ricco di materie prime, specialmente petrolio, gas, legname pregiato e pietre preziose, è uno dei meno sviluppati del sud est asiatico. Il governo destina il 40% del bilancio annuo statale al mantenimento dell’esercito (che con mezzo milione di soldati è uno dei più imponenti al mondo), col risultato che la maggior parte della popolazione di quella che un tempo era soprannominata la “scodella di riso dell’Asia” (per il fatto di essere uno dei maggiori produttori del nutrimento fondamentale per centinaia di milioni di persone del continente), è oggi sottoalimentata.
In questa situazione di cronica miseria, ha preso fuoco la miccia che ha innescato le proteste di questi giorni.
L’impennata dei prezzi dei beni di prima necessità sul mercato mondiale, che si è verificata nel 2007 (causata dalla speculazione finanziaria e dalla crescita economica di Paesi come Cina e India), ha avuto pesanti conseguenze. L’innalzamento generale dei prezzi, verificatosi a gennaio, è stato affrontato dalla giunta militare con la decisione in agosto di raddoppiare il prezzo della benzina, del gasolio, e di quintuplicare il prezzo del gas naturale.
Così, da un giorno all’altro, un lavoratore che di norma guadagna 1000 kyrat al giorno, si è visto costretto a spenderne 800 per poter usare i mezzi pubblici (come racconta La Repubblica del 27 settembre).
 
L'inizio delle proteste
Le sporadiche e isolate proteste iniziate a febbraio si sono via via estese, fino ad arrivare alle imponenti manifestazioni che abbiamo visto nei telegiornali e che hanno interessato i maggiori centri del Paese, come l’ex capitale Rangoon (ora ribattezzata Yangon) e Mandalay.
Da quanto si riesce a sapere, tra i manifestanti vi sono molti giovani, studenti, e “lavoratori in generale” (sempre per usare la terminologia della stampa borghese).
Al momento, nelle manifestazioni un ruolo centrale è giocato dai monaci buddisti. Ammonta a circa mezzo milione il numero di religiosi, ed è interessante notare come le differenze di classe attraversino questa organizzazione. Le alte gerarchie che ricevono dai militari lucrosi finanziamenti che permettono loro di avere un’esistenza agiata, sostengono il governo. Sono invece i giovani monaci che partecipano attivamente alle mobilitazioni in quanto colpiti direttamente dagli effetti della crisi economica in atto poiché vivono a più stretto contatto con la maggioranza della popolazione e traggono di che vivere dall’elemosina che questa elargisce loro.
Hanno assunto, col passare dei giorni, posizioni più radicali. Se in un primo tempo gli slogan facevano appello alla riconciliazione nazionale, oggi rivendicano la cacciata dei militari e la fine della dittatura, per mezzo dell’azione di massa (che, aggiungiamo noi, essendo per ora "non violenta", e cioè priva di autodifesa, è per questo facilmente reprimibile).
Diversamente l’Lnd ad oggi avanza una proposta di accordo con i generali, per arrivare ad una “transizione morbida” alla "democrazia" e in questa partita stanno cercando di entrare prepotentemente anche le maggiori potenze mondiali.
Europa e Usa si dimostrano, a parole, i più duri e conseguenti oppositori del regime, mentre Cina, India e Russia al momento ritengono di "non dover interferire" nella politica interna del Paese. La posta in gioco, come sempre, non è fra "democrazia" e "dittatura" (due termini astratti dietro cui si nasconde di tutto), ma per il controllo delle risorse.
I Paesi imperialisti cercano oggi di scalzare Russia, Cina e India da ruolo di partner privilegiati della Birmania; mentre questi ultimi vorrebbero un mantenimento dello status quo che ha permesso loro negli anni di fare investimenti per diversi miliardi di dollari. In particolare è la burocrazia restaurazionista di Pechino ad avere le maggiori mire sul Paese, anche per la posizione strategica che la Birmania ha come porta di nuovi investimenti verso occidente per la Cina.
 
Dove va la Birmania?
Mentre scriviamo il finale della lotta in corso non è ancora stato scritto. La repressione ha avuto inizio, ma la protesta non sembra essere diminuita di intensità. Circolano voci per cui alcuni reparti militari si sarebbero rifiutati di partecipare alla repressione, e che al contrario si sarebbero uniti ai manifestanti. Questo dimostra che la posta in gioco è molto alta, e che entrambi gli schieramenti hanno iniziato una lotta che terminerà solo con la sconfitta sostanziale di uno dei due contendenti.
Per evitare un nuovo 1988 (cioè la feroce repressione e una recrudescenza della dittatura che vi fu dopo un altro periodo di lotte contro il regime), ma per evitare anche che della situazione tragga giovamente solo l'imperialismo nel sostenere un rinnovamento del regime o un regime nuovo comunque posto sotto il suo controllo (magari travestito da democrazia parlamentare), è 
indispensabile che la classe operaia birmana, in alleanza con i contadini poveri, si organizzi in maniera indipendente. Non saranno infatti né il piccolo clero buddista, né la Lnd, né tantomeno l’imperialismo o le nuove potenze emergenti, a farsi paladini delle rivendicazioni della popolazione sfruttata.
Anche stavolta, come sempre quando le masse popolari si mobilitano, anche se inizialmente senza un programma e persino guidate da religiosi, l'imperialismo è allarmato. Ciò che più teme è di non riuscire a controllare le manifestazioni e di perdere il controllo della situazione. Teme appunto che le masse oppresse si organizzino sulla base delle loro esigenze di classe: che sono inconciliabili con gli interessi dell'imperialismo.
Ciò che serve -e manca drammaticamente fino ad ora anche in Birmania- è allora un partito rivoluzionario basato su un programma transitorio, che si costruisca in queste grandi lotte, che ne organizzi la crescita e l'autodifesa (non mandando masse inermi di fronte ai fucili), che abbia come parole d’ordine la nazionalizzazione senza indennizzo della terra e delle grandi imprese di estrazione di materie prime del Paese, e la creazione di una democrazia basata sui consigli di operai e contadini poveri, capace di dirigere le masse verso una reale vittoria, in una prospettiva socialista.

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