A QUATTRO ANNI DALLA GRANDE RECESSIONE
L'HAPPY END NON E' PREVISTO
di Alberto Madoglio
Non solo perchè, come ottanta anni fa, è partita dal centro
dell’imperialismo mondiale, gli Stati Uniti, ma anche per gli stadi che essa
sta percorrendo. Prima c’è stata una crisi finanziaria e una più prettamente
industriale o produttiva; c’è stata poi la crisi delle finanze degli stati, e
ora si assiste ad una esplosione rivoluzionaria che ha come suo epicentro il
nord Africa e la fascia di paesi che vanno dall’Atlantico al Golfo Persico.
Si tratta di una scansione in fasi molto approssimativa,
perché queste si intrecciano di continuo fra loro ed erano già presenti fin
dall’inizio della crisi nel 2007, ma danno il senso di una escalation di cui non si intravede la fine.
Non appena si comincia a parlare di una possibile ripresa
dell’economia mondiale, di una fine delle turbolenze nei mercati finanziari e
nella produzione, ecco che subito queste “turbolenze” riprendono forza e vigore,
gettando nel pessimismo politici, economisti, commentatori borghesi, che non
sanno letteralmente dove sbattere la testa per trovare una soluzione alla
situazione attuale. Guardiamo all’Europa, sia dal versante dei Piigs (1), sia
dal versante dei paesi virtuosi, sostanzialmente la Germania.
La situazione delle economie della zona euro: come un quadro di H. Bosch
A leggere le notizie che appaiono sui mezzi di informazione
di tutto il mondo, sembra di essere tornati alla primavera del 2010, all’apice
della crisi delle finanze greche, che mise in serio pericolo la stessa
esistenza dell’Euro. Si credeva che, dopo molte resistenze, con la creazione di
una sorta di salvagente europeo (450 miliardi di euro per finanziare Stati in
difficoltà, con tassi più bassi di quelli che chiedeva il mercato finanziario),
con le manovre “lacrime e sangue” imposte dai Governi, la situazione si fosse
normalizzata. Niente di più falso. La
Grecia, secondo molti, non sarà in grado di normalizzare le
sue finanze, e ormai è data per certa una sua dichiarazione di fallimento.
L’Irlanda nel 2010 ha registrato un rapporto deficit-Pil del
30%. Si tratta sicuramente di un dato straordinario, dovuto alla necessità di
salvare le banche, ma i suoi effetti peseranno per decenni sulle finanze del
paese.
La Spagna,
come la Grecia,
ha dovuto subire un altro abbassamento del rating
sul suo debito pubblico, e a poco è servito imprecare contro le agenzie
internazionali che rilasciano queste “pagelle”. I mercati credono più a Moodys,
Standard and Poor e Fitch che non a Zapatero, e questo per il Governo di Madrid
non è un buon segnale.
In Italia, la cui economia dovrebbe essere quella che sta
“meglio tra quelle che stanno peggio”, si assiste ad un aumento esponenziale dei
fallimenti di imprese e dei licenziamenti, della disoccupazione tra i giovani
(circa il 30%) ecc. Solo il considerevole ricorso agli ammortizzatori sociali e
una serie massiccia di tagli allo stato sociale, hanno per ora impedito che il
paese fosse colpito da una crisi economico-finanziaria pari a quella ellenica o
della ex tigre celtica. Ma è solo questione di tempo. Tremonti sposta un po’
più in là nel tempo il momento in cui anche il Belpaese dovrà pagare il conto
della crisi, e possiamo già annunciare che sarà molto salato.
Germania: se una rondine non fa primavera
Non va molto meglio nemmeno per il paese che da tutti è
preso ad esempio come quello che, insieme alla Cina, ha risentito meno dei
colpi della Grande Recessione sul suo sistema economico. In effetti, pare
essere proprio così. Finanze in ordine, Pil in crescita, disoccupazione in
calo. La “cool Germania” è ormai il must del momento, il paese in cui tutti
vorrebbero vivere. In realtà non è così.
Come spiega bene un dossier apparso sull’Espresso (2), nella situazione tedesca
sono presenti molti segnali preoccupanti. La disoccupazione è in calo, ma
comunque è al 7,9%, un dato tutt’altro che marginale. Il welfare renano è ormai un pallido ricordo, da quando il Governo
Schroder lo ha smantellato negli anni 2000. Inoltre, la forza dell’economia
tedesca è dovuta in larga misura alla sua capacità di esportare. Ma con due
problemi. Il primo, che oltre ad una indiscussa produttività del lavoro
tedesco, le esportazioni sono favorite da una estrema moderazione salariale,
che a sua volta causa, e questo è il secondo problema, una contrazione o un non
sufficiente aumento del consumo interno. Ora se è vero che un’economia basata
su eccesso di consumo “nazionale” non è sintomo di un sistema sano (Stati Uniti
insegnano), non è vero il contrario.
Una contrazione, anche minima, del commercio mondiale,
causata da fattori sui quali il Governo di Berlino non ha il controllo (crescita
inflazione mondiale, nuova recessione in Usa o in Estremo Oriente ecc.), può
trasformare il sogno di un rinascimento tedesco in un incubo.
Chimerica: quando la mitologia non basta a risolvere i problemi
Le cose non cambiano se si abbandona l’Europa. Passate le
Colonne d’Ercole, le notizie che arrivano dal nuovo mondo, non sono
rassicuranti. Nonostante massicci interventi delle autorità monetarie, la
situazione è preoccupante. Il debito pubblico batte ogni record del passato, le
finanze degli Stati dell’Unione sono ad un passo dalla bancarotta e, nonostante
ciò, la disoccupazione non cala e i consumi interni non crescono.
Sulla Via della Seta si arriva in Cina: l’economia è
sicuramente in continua crescita, anche se si sommano segnali di rallentamento
dell’espansione, rischio di bolla nel mercato immobiliare e un preoccupante
aumento dell’inflazione che contribuisce ad impoverire gli strati proletari del
paese, che già subiscono uno sfruttamento brutale a fronte di salari miseri.
“Una notte più buia del buio e un giorno più grigio dell’altro” (The road, film di J. Hillcoat)
Sono tutte notizie, queste, che non devono stupire. Un recente report della Banca Mondiale ha tracciato un quadro a tinte fosche dell’economia globale. Nell’ottobre 2010 la produzione industriale mondiale ha superato dell’1% il livello raggiunto ad agosto 2008, prima dello scoppio della crisi. Tuttavia si è del 5% sotto il livello che essa avrebbe dovuto avere se la sua crescita fosse stata “regolare”. La produzione dei paesi sviluppati è comunque di circa l’11% inferiore al livello pre-crisi. Il dato positivo quindi è dovuto alla performance delle economie in via di sviluppo e ancor di più alla crescita raggiunta da Cina e India: le nazioni dell’Europa dell’Est si trovano in una situazione simile o peggiore a quelle della parte occidentale del vecchio continente. Infine mentre scriviamo, non è ancora quantificabile quale sarà l’impatto sull’economia globale del disastro che ha colpito il Giappone nei giorni scorsi, che quasi certamente condannerà l’economia del Sol Levante all’ennesima caduta nella recessione. Questa semplice elencazione di dati ci permette di affermare che la fine della Grande Recessione è ancora lontana.
L’ultimo ciak non e’ stato girato. Il finale si può cambiare
Si tratta di capire se, facendo sempre il paragone con
quando accaduto negli anni ‘30 del secolo scorso, avremo la quinta fase della
crisi, cioè un conflitto armato fra le varie potenze capitaliste mondiali, sia
che esse siano di vecchia o di recente formazione. Ciò sarà in larga parte
determinato dall’evolversi della lotta di classe. Ai tempi della Grande
Depressione, le sconfitte della rivoluzione in Germania, Austria, Spagna e
Francia condannarono l’umanità al massacro della Seconda Guerra Mondiale. Oggi
è nelle rivoluzioni scoppiate in Nord Africa, nelle mobilitazioni in Europa, in
Cina e negli stessi Stati Uniti, che può verificarsi l’alternativa ad una nuova
barbarie come quella che si è verificata tra il 1939 e il 1945. Solo la
vittoria di queste rivoluzioni, la distruzione del sistema di dominio globale
del capitalismo può garantire un futuro di pace e sviluppo per la stragrande
maggioranza della popolazione mondiale. (18/03/2011)
La Lit
e il Partito di Alternativa Comunista si battono in prima persona affinché
l’umanità si liberi per sempre di guerre, miserie e disastri causati da un
sistema economico e sociale che ormai da oltre un secolo non offre nessuna
speranza di prosperità e sviluppo.
(1) Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna
(2) “Berlino cioè Pechino” di M. Schuman, L’Espresso del 17/03/11