Partito di Alternativa Comunista

I partiti politici nella lotta palestinese*

I partiti politici nella lotta palestinese*

 

 

di Fabio Bosco

 

 

Diversi partiti palestinesi sono stati attivi nella lotta per la liberazione della Palestina. Per questo è necessario parlare della storia della Resistenza palestinese per capire il ruolo di ciascuna organizzazione.
Il principale partito palestinese si chiama al-Fatah. Formato nel 1958 da un gruppo di giovani tra cui Yasser Arafat, questo partito propugnava la liberazione dell'intera Palestina attraverso la lotta armata, ispirandosi alla lotta algerina contro l'imperialismo francese. La battaglia di Karameh, in Giordania, contro l'esercito israeliano nel 1968 rese popolare al-Fatah e migliaia di palestinesi, arabi e anche stranieri si unirono alle sue fila per lottare per la liberazione della Palestina. Un anno dopo, Yasser Arafat assunse la guida dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), che divenne l'organizzazione che rappresentava l'intero popolo palestinese. Da quel momento in poi, la storia di al-Fatah si intrecciò con quella dell'Olp e della lotta palestinese.
Il progetto politico di al-Fatah – la liberazione dell’intera Palestina con le armi – si basava sull’«unità nazionale» tra le classi sociali, che implicava la subordinazione degli interessi della classe operaia palestinese e dei milioni di rifugiati sparsi nel mondo arabo a quelli della borghesia palestinese. Oltre alla conciliazione di classe, il suo progetto includeva il principio del «non intervento» nella politica di altri Paesi che, in pratica, cementava un’alleanza con i Regimi borghesi reazionari arabi a spese dei lavoratori palestinesi e arabi di ogni Paese.

 

Il tradimento del Partito comunista e la nuova sinistra palestinese

Nel 1967 si formò il principale partito di sinistra, il Fronte popolare per la Liberazione della Palestina (Fplp). Il Fplp vedeva la liberazione della Palestina come una lotta antimperialista che doveva essere portata avanti dalle classi lavoratrici dei Paesi arabi. Rifiutava la politica di «unità nazionale» tra le classi sociali e la politica di «non intervento» negli affari interni dei regimi borghesi arabi. Il suo motto era: «La strada per Gerusalemme inizia al Cairo, ad Amman e a Damasco». Ispirato dalla rivoluzione cubana, sostenne anche azioni armate «fochiste» e divenne famoso per i dirottamenti di aerei. Due anni dopo, da una dissidenza più radicale del Fplp, nacque il Fronte democratico per la Liberazione della Palestina (Fdlp).
Entrambe le organizzazioni si dichiaravano marxiste e valutavano negativamente il sostegno politico e militare dato da Stalin e dal Partito comunista palestinese (Pcp) alla formazione dello Stato di Israele, un tradimento che ancora oggi pesa sul Partito comunista di Israele e sul Partito popolare.
Il Pcp, costituito nel 1924, era un partito a maggioranza ebraica che difendeva l’unione dei lavoratori arabi ed ebrei per una Palestina socialista. Dal punto di vista politico, il partito si muoveva a zig-zag ed esplose a causa dei suoi limiti politici. Nel 1929, il Pcp denunciò le proteste palestinesi di al-Buraq come pogrom antiebraico. Nel 1936, invece, il Pcp sostenne correttamente la rivoluzione palestinese, ma capitolò politicamente di fronte alla direzione del muftì di Gerusalemme, che rappresentava gli interessi delle élite palestinesi, in particolare dei proprietari terrieri. Nel 1943, il Pcp si spaccò. La maggioranza dei suoi membri aderì al sionismo, sostenendo che la comunità ebraica aveva diritto a un «focolare nazionale» in Palestina. La minoranza araba formò la Lega di liberazione nazionale (Lln), abbandonando qualsiasi legame con un progetto socialista. Nel 1947, il sostegno dell’Unione sovietica alla spartizione della Palestina e alla formazione dello Stato di Israele portò il Pcp a partecipare alla Nakba, unendosi all’Haganah, sostenendo la fine dell’embargo sulle armi alle milizie sioniste e criticando il governo provvisorio sionista per aver accettato un cessate il fuoco con gli Stati arabi. Il suo segretario generale divenne uno dei 31 membri del Consiglio di governo provvisorio, insieme a tutti i dirigenti criminali sionisti. Nello stesso periodo, la decisione di Stalin di appoggiare la spartizione e la Nakba mise in crisi la Lln. Dopo aver formato una maggioranza a favore della spartizione, espulse gli oppositori. Nell’ottobre 1948 fece un'autocritica della sua «deviazione nazionalista di destra» per non aver riconosciuto il diritto dei sionisti a un «focolare nazionale» ebraico. In seguito, una parte si unì al Partito comunista di Giordania e un'altra parte si riunì al Pcp per formare il Partito comunista d'Israele, che esiste tuttora e difende la famigerata politica dei due Stati.

 

Il massacro in Giordania, la sconfitta del 1973 e la guerra civile libanese

Nel settembre 1970 in Giordania, re Hussein, sostenuto da Israele e dagli Stati Uniti, compì un massacro di palestinesi – che allora costituivano il 70% della popolazione locale – ed espulse l’Olp e i partiti palestinesi dal Libano. Vale la pena ricordare che l'allora capo dell'aviazione siriana, Hafez el-Assad, organizzò un colpo di Stato militare proprio per impedire l'arrivo di aiuti militari ai palestinesi e diede inizio alla dinastia degli Assad, una delle peggiori dittature dell'intera regione e nemica dichiarata di Yasser Arafat e dell’Olp.
Il peso di questa sconfitta, e anche della sconfitta dei Paesi arabi da parte di Israele nella guerra dell’ottobre 1973, ha spianato la strada alle pressioni dei Regimi arabi e dell'Unione sovietica affinché l’Olp abbandonasse la lotta per la liberazione della Palestina in cambio della formazione di un mini-Stato palestinese in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e a Gerusalemme est – circa il 22% dell’intero territorio palestinese.
Il Fdlp fu la prima organizzazione della Resistenza palestinese a sostenere pubblicamente questa politica. Allo stesso modo, Yasser Arafat fece un discorso storico alla plenaria dell’Onu nel 1974, tenendo una mitragliatrice in una mano e un ramoscello d’ulivo nell’altra, in cui offrì un «compromesso storico» allo Stato criminale di Israele. Ma l’imperialismo statunitense e Israele non volevano un compromesso. Volevano la resa.
Nel 1975, la borghesia cristiana maronita libanese iniziò una guerra civile per impedire le riforme democratiche volte a porre fine al regime confessionale richieste dal Movimento nazionale libanese (Mnl), guidato dal borghese druso Kamal Jumblat, in alleanza con i partiti di sinistra. Il Mnl si alleò con l’Olp, allora principale forza militare del Paese, un’alleanza che inflisse una serie di sconfitte alle forze dell’estrema destra maronita. Un anno dopo, le truppe siriane invasero il Paese su richiesta del segretario di Stato americano Henry Kissinger per impedire la sconfitta delle forze di estrema destra maronite e i rifugiati palestinesi furono massacrati nel campo profughi di Tel Az-Zatar dalle milizie cristiane di estrema destra sotto la supervisione delle truppe di Assad.
Nel 1982, un'azione congiunta dell'esercito israeliano e delle milizie maronite di estrema destra espulse Arafat e le forze dell’Olp dal Libano e portò a un massacro nei campi palestinesi di Sabra e Shatila, quando circa 3.000 palestinesi furono giustiziati a sangue freddo dai miliziani maroniti con il supporto logistico delle forze israeliane. Il massacro dei palestinesi provocò una rivolta popolare che espulse le truppe israeliane da Beirut e poi da tutto il Libano.

 

L'origine di Hamas

Nel 1987, i palestinesi iniziarono una rivolta popolare a Gaza e in Cisgiordania. Questa rivolta venne chiamata Intifada. La principale organizzazione islamica, i Fratelli musulmani, ha mantenuto il principio di non ingerenza nelle questioni politiche. Tuttavia, sotto l'enorme pressione popolare per svolgere un ruolo attivo nella Resistenza palestinese, un settore dei Fratelli musulmani si scisse e formò il Movimento di resistenza islamica (Hamas).
Hamas non fu il primo partito politico islamico a unirsi alla resistenza. Nel 1981, una precedente scissione dai Fratelli musulmani aveva dato vita alla Jihad islamica palestinese (Jip), ispirata alla rivoluzione iraniana e alle azioni della Jihad islamica egiziana, famosa per aver giustiziato il presidente egiziano Anwar Sadat per aver normalizzato le relazioni con lo Stato sionista. La Jip sostiene l'azione armata contro Israele e rivendica una Palestina islamica in tutto il suo territorio storico. La Jip promuove vari progetti religiosi e di assistenza sociale. Nonostante sia più anziana, la Jip ha un’influenza molto minore di Hamas tra i palestinesi.
Hamas difende alcuni dei valori dei Fratelli musulmani: il libero mercato, la proprietà privata, la riconciliazione di classe, l’assistenza sociale per i poveri e l'istruzione attraverso l’islamizzazione. A differenza della Fratellanza, Hamas sostiene la liberazione nazionale di tutto il territorio palestinese con ogni mezzo necessario, compresa la resistenza armata. Il suo primo manifesto sosteneva la necessità di una Palestina islamica.
Hamas ha successivamente modificato il suo programma. Da un lato, già nel 1993 il suo dirigente storico, lo sceicco Ahmed Yassin, sosteneva la proposta di una tregua di 10 o 20 anni con Israele (Hudna in arabo), che in pratica avrebbe comportato il riconoscimento de facto dello Stato sionista. Questo stesso contenuto è stato espresso nella sua piattaforma elettorale del 2006, in cui non vi è alcun riferimento alla lotta per la fine dello Stato di Israele. D'altra parte, ha abbandonato la proposta di una Palestina islamica nel suo nuovo manifesto approvato nel 2017, senza chiarire il modello di Stato che rivendica. A Gaza, assediata da 17 anni dallo Stato di Israele, le libertà democratiche sono limitate. Tuttavia, Hamas è uno dei pochi partiti palestinesi che organizza elezioni interne per scegliere i suoi dirigenti ogni quattro anni, con un impatto reale sulla direzione dell’organizzazione.
Un altro aspetto importante è la sua politica estera. Hamas difende il principio del «non intervento» nella politica di altri Paesi. Questo gli ha permesso di stabilire importanti relazioni con diversi regimi nel corso della sua storia, come quello saudita, siriano, iraniano, turco e qatariota.

 

Gli accordi di Oslo

L’Intifada palestinese portò l'imperialismo statunitense e Israele a sottoscrivere gli accordi di Oslo nel 1993, trasformando al-Fatah in un agente dell'occupazione israeliana della Cisgiordania e della Striscia di Gaza. Gli accordi di Oslo hanno portato a un'ulteriore colonizzazione delle terre palestinesi e hanno istituzionalizzato un regime di apartheid contro i palestinesi, continuando la pulizia etnica iniziata 76 anni fa con la Nakba.
I partiti della sinistra palestinese hanno denunciato gli accordi di Oslo, ma poi hanno capitolato insieme ad al-Fatah e si sono adattati ad essi in nome dell’«unità nazionale». Hanno anche abbandonato la loro indipendenza dai Regimi arabi e, in particolare, dal regime iraniano degli ayatollah. Di conseguenza, non hanno avuto un ruolo significativo nell’ondata di rivoluzioni arabe scoppiate in Tunisia nel dicembre 2010.
Attualmente sono sostenitori del cosiddetto «Asse della Resistenza» guidato dal Regime iraniano, con la partecipazione della dittatura siriana e del principale partito politico libanese, Hezbollah.
Nella stessa situazione si trovano i dissidenti di queste organizzazioni, come Masar Badil (Percorso alternativo – meglio conosciuto per la rete per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi da loro promossa, chiamata Samidoun). Guidata dall'ex leader del Fplp Khaled Barakat, Masar Badil si oppone alla corrotta Autorità nazionale palestinese ed è duramente perseguitata in Paesi imperialisti come la Germania. Tuttavia, come il Fplp, Masar Badil è totalmente silente di fronte all'incarcerazione degli attivisti palestinesi in Siria, e anche di fronte al massacro di mezzo milione di siriani compiuto dal regime di Assad con il sostegno del Regime iraniano, di Hezbollah e del Regime russo.
Hamas, invece, ha mantenuto la propria opposizione agli Accordi di Oslo e alla fine è diventata la principale organizzazione della Resistenza palestinese, candidandosi a sostituire al-Fatah come organizzazione-guida del movimento nazionale palestinese.
Tra i giovani palestinesi si formano regolarmente nuove organizzazioni per affrontare la violenza della colonizzazione sionista. Nel pieno dell’ondata di rivoluzioni arabe del 2011, un ampio strato di giovani attivisti, attingendo alle migliori tradizioni della lotta palestinese, ha cercato di costruire nuove alternative al tradimento dell’Autorità nazionale palestinese e alla bancarotta politica della sinistra palestinese. Uno degli attivisti più importanti di questa generazione è stato Bassel al-Araj, arrestato dall’Autorità nazionale palestinese nel 2016 per aver pianificato attacchi contro i sionisti e assassinato dalle forze sioniste nel 2017. Nel 2022, giovani palestinesi di diverse organizzazioni si sono armati per l’autodifesa delle città palestinesi e dei campi profughi, indipendentemente dalle direttive dei loro partiti. Il gruppo divenuto più famoso è Fossa dei leoni, della città vecchia di Nablus, mentre il campo profughi di Jenin è diventato il centro principale della nuova Resistenza palestinese.

 

È necessario un nuovo partito rivoluzionario

La costruzione di un nuovo partito rivoluzionario in Palestina richiede di attingere al meglio del patrimonio rivoluzionario della lotta palestinese e di evitare gli errori commessi nel corso della storia della Resistenza.
Un primo passo è quello di identificare chi sono gli alleati e chi i nemici della causa palestinese, e di sviluppare una strategia coerente. Il rivoluzionario marxista palestinese Ghassan Kanafani identificò i nemici della causa palestinese nel primo paragrafo del suo libro La rivolta del 1936-1939 in Palestina:
«Nel 1936-1939, il movimento palestinese subì una grave battuta d’arresto per mano di tre nemici che, insieme, avrebbero costituito la principale minaccia per il movimento nazionalista in Palestina in tutte le fasi successive della sua lotta: la direzione reazionaria locale, i regimi degli Stati arabi confinanti e il nemico sionista-imperialista».
Kanafani chiarì che oltre agli ovvi nemici – lo Stato genocida di Israele e i suoi sostenitori imperialisti – anche la borghesia palestinese e i Regimi arabi sono nemici della causa palestinese.
Tuttavia, la sinistra palestinese ha abbandonato questa visione strategica. Ne è un esempio l'incontro tra quattordici organizzazioni palestinesi, tra cui al-Fatah e Hamas, tenutosi a Pechino il 23 luglio 2024 sotto il patrocinio dell’imperialismo cinese. Durante l'incontro è stata lanciata una Dichiarazione congiunta per l'unità palestinese. Tuttavia, tra queste 14 organizzazioni, alcune sostengono e integrano la Resistenza palestinese, come Hamas e il Fplp, mentre altre non sostengono la resistenza e hanno addirittura un accordo di cooperazione per la sicurezza con lo Stato di Israele, come al-Fatah, che gestisce l’Autorità nazionale palestinese. Che tipo di unità sarà questa? In nessun momento dell'incontro è stato chiesto all’Autorità nazionale palestinese di interrompere la sua cooperazione con lo Stato di Israele o di dare un sostegno incondizionato alla Resistenza palestinese. A peggiorare le cose, le proposte dell’ospite cinese includevano una difesa della sciagurata politica dei due Stati.
È chiaro che la popolazione palestinese vuole l’unità di tutti i partiti politici palestinesi per affrontare Israele. Ma è compito di Hamas, il principale membro della Resistenza, e della sinistra palestinese chiarire gli obiettivi e i limiti dell’unità d’azione con i partiti collaborazionisti.
L’obiettivo di al-Fatah è chiaro: rafforzarsi per assumere il controllo della Striscia di Gaza a proprio vantaggio. In altre parole, in nome dell’«unità nazionale», l’interesse della classe operaia di resistere all’occupazione israeliana viene subordinato agli interessi della borghesia palestinese di trarre profitto dalle attività legate all’Occupazione.
Un altro nemico individuato da Kanafani sono i Regimi arabi. Questi Regimi storicamente hanno usato la causa palestinese per imporre brutali dittature ai loro popoli. Allo stesso modo, anche i regimi iraniano e turco utilizzano la difesa della causa palestinese per i propri fini politici.
Il principio di «non ingerenza» negli affari dei Paesi vicini ha sempre fatto sì che i partiti palestinesi ignorassero le lotte della classe operaia e dei giovani che, per rivendicare i propri diritti, affrontavano questi Regimi. Questo è ciò che è avvenuto durante l’ondata di rivoluzioni arabe iniziata nel 2010.
Possiamo vedere il ruolo svolto dai Regimi arabi in questi 10 mesi di genocidio in Palestina. Gli Houthi yemeniti sono l'unica forza araba a costruire efficacemente la solidarietà con Gaza bloccando il Mar Rosso, una delle rotte marittime più importanti del mondo. I principali regimi della regione, sia quelli allineati con l'imperialismo statunitense che i membri del sedicente «Asse della Resistenza», si sono limitati a denunciare il genocidio senza alcuna azione militare.
Una posizione attiva di solidarietà con i lavoratori e i giovani arabi, iraniani e turchi contro i loro regimi è decisiva perché è molto difficile costruire una Palestina libera nell'isolamento, circondata da regimi reazionari legati a diverse potenze imperialiste. L’unità dei lavoratori palestinesi e arabi è fondamentale per la futura liberazione della Palestina e di tutti i Paesi arabi. Come diceva il motto dell’epoca d’oro della sinistra palestinese: «La strada per la liberazione di Gerusalemme inizia al Cairo, ad Amman e a Damasco».
Infine, la questione dell’Internazionale. Un partito rivoluzionario palestinese, con una corretta strategia di unità con la classe operaia araba, ha bisogno di un’organizzazione internazionale coerente con tale strategia.
Il «Movimento comunista internazionale» ha già dimostrato di non essere tale. A parte il suo tradimento nel sostenere la spartizione della Palestina e la Nakba, la maggior parte delle sue organizzazioni oggi sostiene la politica dei «due Stati», compreso l'esponente della sua ala «rivoluzionaria», il Partito comunista greco (Kke).
La Quarta Internazionale ha dimostrato coerenza con la lotta palestinese nel corso della propria storia e, con errori e successi, servirà come importante punto di appoggio per un partito rivoluzionario palestinese.

 

Il partito rivoluzionario e la Quarta Internazionale

La lotta per una Palestina laica e democratica sarà portata avanti fino in fondo dalla classe operaia, dai contadini e dai giovani poveri della Palestina e dei Paesi arabi, che si scontreranno con l’imperialismo, lo Stato di Israele, i Regimi arabi e la stessa borghesia palestinese. La dinamica di questa lotta di liberazione nazionale è quindi anticapitalista e internazionalista. Per realizzare questo programma, è necessario costruire un nuovo partito palestinese, di carattere socialista e rivoluzionario, come parte di un’Internazionale.
La Quarta Internazionale, nell’anno della sua fondazione nel 1938, diede impulso a un piccolo gruppo in Palestina, all’epoca sotto il mandato britannico, chiamato Lega comunista rivoluzionaria (Lcr). La Lcr si formò sotto l'impatto di grandi eventi sulla scena mondiale.
Nel 1928-1933, l’Internazionale comunista (Komintern) applicò la politica di ultrasinistra del «socialfascismo» in Germania, facilitando l'ascesa del nazismo. Lev Trotsky scrisse molto su questi avvenimenti, contrastando la posizione del Komintern e attirando due piccole scissioni verso posizioni rivoluzionarie: un piccolo gruppo di giovani in Palestina guidato da Tony Cliff (pseudonimo di Yigael Glückstein) della gioventù di Poale Zion e dalla sua compagna Chanie, membro di Hashomer Hatzair, che ruppe con queste organizzazioni «sioniste di sinistra». A loro si unirono militanti tedeschi che avevano rotto con il Partito comunista tedesco (Opposizione), una scissione dal Kpd guidata da Heinrich Brandler, e che aderivano a posizioni trotskiste, tra cui l’operaio Jacob Taut.
Un altro grande tradimento – il patto tra Hitler e Stalin nel 1939 – favorì il passaggio di quadri arabi di primo piano dal Partito comunista palestinese alla Rcl: il primo fu il palestinese Jabra Nicola, allora membro del Comitato centrale del Pcp e direttore del suo giornale sindacale al-Nur, in seguito vennero il segretario generale della Lega per la liberazione nazionale (Lln, formatasi dalla scissione del Pcp nel 1943: nel Pcp rimasero esclusivamente militanti di origine ebraica, mentre la Lln di formò esclusivamente con militanti arabi) e un importante dirigente del sindacato ferroviario.
L’orientamento politico della Lcr, usando le parole di Tony Cliff, era che «I lavoratori arabi devono combattere il sionismo e l'imperialismo e rompere con i leader arabi reazionari. E i lavoratori ebrei dovrebbero unirsi alle masse arabe in questa lotta».
La Lcr non si faceva illusioni sulla colonizzazione sionista. Al contrario, si opponeva all’immigrazione ebraica in Palestina, perché questa immigrazione metteva i rifugiati ebrei europei al servizio della macchina coloniale sionista contro la popolazione palestinese. Essi sostenevano l’apertura delle frontiere del Regno Unito e degli Stati Uniti, che erano le destinazioni preferite dai rifugiati ebrei, all’immigrazione ebraica come alternativa alla Palestina. Per esperienza personale, conoscevano le organizzazioni sioniste «di sinistra» e i kibbutzim (fattorie collettive per coloni ebrei) e sapevano che non rappresentavano assolutamente un esperimento di tipo socialista. Al contrario, erano la punta di diamante della colonizzazione delle terre arabe e dell’espulsione della popolazione palestinese (1).
Coerentemente con questa posizione, la Lcr si oppose alla spartizione della Palestina nel 1947 e alla formazione dello Stato di Israele nel 1948, a differenza del Partito comunista che, seguendo la posizione di Stalin, sostenne la spartizione e la Nakba.
Tuttavia, la Lcr aveva una valutazione errata del ruolo delle classi sociali nella lotta per la liberazione della Palestina e dell’intero Oriente arabo. Sostenevano un’alleanza tra la classe operaia palestinese e la classe operaia ebraica per affrontare l’imperialismo, il sionismo e le élite arabe reazionarie. Ma questa alleanza era impossibile a causa del carattere colonialista ed escludente dell’impresa sionista, oggi definita colonialismo di insediamento. La classe operaia israeliana ha contraddizioni di classe con la borghesia israeliana. Tuttavia, la classe operaia israeliana è consapevole che il suo tenore di vita, che si è abbassato negli ultimi 40 anni, dipende dal furto di terre, case e posti di lavoro del popolo palestinese. È questa situazione di apartheid che garantisce alla classe operaia israeliana una posizione relativamente privilegiata rispetto alla classe operaia palestinese. Pertanto, la classe operaia israeliana come classe non si è mai rivolta contro la pulizia etnica, l’apartheid o lo Stato sionista. Questo è ciò che l’esperienza storica ci ha dimostrato sin dall’inizio della colonizzazione sionista della Palestina, oltre cento anni fa.
Lo stesso Tony Cliff lo ha riconosciuto nella sua autobiografia: «Naturalmente c’era un conflitto di classe all'interno della comunità ebraica in Palestina. I lavoratori e i capitalisti lottavano per i salari e le condizioni. Ma l’espansione coloniale sionista smorzò la lotta di classe e le impedì di assumere la forma politica dell'opposizione al sionismo e all’imperialismo e della solidarietà con gli arabi sfruttati e oppressi» (2).
Anche il rivoluzionario marxista palestinese Ghassan Kanafani analizzò l’impatto della colonizzazione sionista sulla lotta di classe e sulla religiosità della Resistenza palestinese: «Così la lotta di classe si è mescolata, con straordinaria profondità, con l’interesse nazionale e i sentimenti religiosi, e questa mescolanza è scoppiata nel contesto della crisi oggettiva e soggettiva che la società arabo-palestinese stava vivendo. Di conseguenza, la società arabo-palestinese è rimasta prigioniera delle direzioni feudali-clericali. Data l’oppressione sociale ed economica degli arabi palestinesi poveri nelle città e nei villaggi, era inevitabile che il movimento nazionalista assumesse forme avanzate di lotta, adottasse slogan di classe e agisse sulla base di concetti di classe. Allo stesso modo, di fronte alla salda e quotidiana alleanza espressa tra la società di invasione costruita dai coloni ebrei in Palestina e il colonialismo britannico, era impossibile dimenticare il carattere essenzialmente nazionalista di questa lotta. E visto il terribile fervore religioso su cui si basava l’invasione sionista della Palestina e che era inseparabile da tutte le sue manifestazioni, era impossibile per le campagne palestinesi sottosviluppate non praticare il fondamentalismo religioso come manifestazione di ostilità verso l’incursione colonialista sionista» (3).
Non comprendendo l’insieme delle conseguenze che l’oppressione nazionale aveva per la lotta di classe, e avendo come base principale la classe operaia ebraica, la Lcr ebbe molte difficoltà a svilupparsi. Nonostante la pubblicazione di una rivista in arabo e di un'altra in ebraico, nonché di opuscoli in inglese per le truppe britanniche, nel 1946 la Lcr contava circa 30 militanti, di cui solo sette arabi.
Oggi esistono ancora organizzazioni socialiste come la Frazione Trotskista, guidata dal Pts argentino, che, immerse nella realtà di un Paese con una delle più grandi comunità sioniste del mondo e lontane dalla realtà della Palestina occupata, sottovalutano l’oppressione nazionale e predicano l’unità della classe operaia palestinese e israeliana contro le borghesie. Queste organizzazioni sostengono che la difesa di una Palestina laica e democratica dal fiume al mare è una visione tappista, per questo sostengono una Palestina socialista, senza chiarire se sostengono la fine dello Stato di Israele. Tuttavia, qualsiasi osservatore attento che conosca la realtà della Palestina occupata, sa che la classe operaia ebraica israeliana è parte della colonizzazione sionista che le garantisce una posizione materiale e sociale privilegiata rispetto ai palestinesi. Ecco perché il genocidio israeliano a Gaza gode dell’ampio sostegno della classe operaia ebraica israeliana (4). Nella Palestina occupata esiste un piccolo settore di ebrei antisionisti che, avendo rotto con il sionismo, sono veri alleati della liberazione della Palestina.

 

Diritto di autodeterminazione per gli oppressori?

C’è un altro importante dibattito sul diritto di autodeterminazione in Palestina. Il trotskista palestinese Jabra Nicola ha sostenuto l’unità del processo rivoluzionario operaio arabo nella prospettiva della rivoluzione permanente. Egli si rendeva conto che nel mondo arabo, a differenza che in Europa, non si era sviluppata una classe borghese distinta dalla classe dei proprietari terrieri e quindi non c’era la possibilità storica che la borghesia svolgesse un ruolo progressivo contro i proprietari terrieri. D'altra parte, l'imperialismo aveva diviso artificialmente l’Oriente arabo, e la sua riunificazione era diventata una missione della rivoluzione socialista e della classe operaia. In questo senso, le idee di Jabra Nicola riprendono il meglio della tradizione rivoluzionaria precedente allo stalinismo.
Tuttavia, sosteneva che il diritto all’autodeterminazione della popolazione ebraica israeliana avrebbe dovuto essere garantito dalla rivoluzione socialista in tutta la regione dopo la distruzione dello Stato sionista. Nella tradizione marxista, il diritto all’autodeterminazione si applica solo alle nazionalità oppresse, mai agli oppressori. Karl Marx si oppose al diritto di autodeterminazione degli Stati schiavisti confederati del Sud degli Stati Uniti. Allo stesso modo, i rivoluzionari non hanno mai difeso il diritto all'autodeterminazione per i bianchi in Sudafrica, per i coloni francesi in Algeria o per i protestanti in Irlanda del nord (con l’eccezione delle correnti socialiste britanniche della tradizione di Ted Grant).
Naturalmente, nella generosità palestinese c’è spazio per la coesistenza con tutte le popolazioni non-arabe, purché accettino di vivere in pace con i palestinesi in una Palestina libera, laica e democratica. Ma questo non conferisce loro il diritto all’autodeterminazione, che in ultima analisi garantirebbe loro il diritto alla secessione, per effettuare una nuova divisione della terra palestinese.
Questi dibattiti tra trotskisti sono una viva dimostrazione delle grandi sfide che i rivoluzionari devono affrontare sulla questione nazionale. Una risposta corretta a queste sfide porrà le basi per la costruzione di un partito rivoluzionario palestinese che guidi la classe operaia palestinese e araba nella sua lotta per l’emancipazione.

 

Il concetto di tregua a lungo termine sostenuto da Hamas

Hamas non accetta di riconoscere lo Stato sionista, ma storicamente sostiene una tregua a lungo termine (hudna in arabo) che implica la rinuncia a combattere militarmente contro lo Stato razzista, a patto che lo Stato sionista rinunci all’aggressione militare contro i palestinesi per lo stesso periodo.
L’analista politico Azzam Tamimi, nel suo libro Hamas: a history from within, spiega questa posizione: «Una questione che rimarrà nel nuovo manifesto di Hamas è l'opposizione del movimento allo Stato di Israele. Se Hamas rimane fedele ai suoi principi fondanti, non riconoscerà il diritto all'esistenza di Israele».
«Tuttavia, questa considerazione dottrinale non nega il diritto degli ebrei a vivere in Palestina, purché la loro presenza non sia il risultato di un’invasione o di un’occupazione militare. Né impedisce ai musulmani, compreso il movimento Hamas, di negoziare un accordo di cessate il fuoco con lo Stato israeliano per porre fine allo spargimento di sangue e alle sofferenze da entrambe le parti, per tutto il tempo che può essere concordato. L'idea di una «hudna» (tregua in arabo) con Israele è nata nei primi anni Novanta.
Musa Abu Marzuq, capo dell’ufficio politico di Hamas con sede ad Amman, vi fece riferimento in una dichiarazione pubblicata ad Amman dal settimanale Al Sabeel, organo del Movimento islamico giordano, nel febbraio 1994. Nello stesso periodo, il fondatore di Hamas, lo sceicco Ahmad Yassin, parlando dalla sua cella in carcere, fece il primo riferimento all’idea di una «hudna» quando propose una tregua come soluzione provvisoria al conflitto tra palestinesi e israeliani. Sia Abu Marzuq che lo sceicco Yassin hanno ripetuto l’offerta in diverse occasioni, senza però interessare gli israeliani. Recentemente, i portavoce di Hamas hanno fatto frequenti riferimenti all'idea di una «hudna».
La «hudna» è riconosciuta dalla giurisprudenza islamica come un contratto legittimo e vincolante il cui scopo è quello di far cessare i combattimenti contro un nemico per un periodo di tempo concordato. La tregua può essere breve o lunga, a seconda delle esigenze e degli interessi reciproci. Una tregua di questo tipo sarebbe diversa dagli accordi di pace di Oslo, in base ai quali l’Olp ha riconosciuto lo Stato di Israele e il suo diritto di esistere. La differenza è che nei termini della «hudna», la questione del riconoscimento non viene sollevata. Questo perché Hamas non può, per principio, accettare che la terra sottratta ai palestinesi da Israele sia divenuta di Israele. Hamas non ha l'autorità per rinunciare al diritto dei palestinesi di tornare nelle terre e nelle case che sono stati costretti a lasciare nel 1948 o dopo. Tuttavia, può affermare che nelle circostanze attuali la cosa migliore da fare è recuperare alcune terre perdute e garantire il rilascio dei prigionieri in cambio della cessazione delle ostilità.
Per giustificare la «hudna», i dirigenti di Hamas si rifanno all'esempio di quanto accaduto tra i musulmani e i crociati nell'ultimo decennio del XII secolo. Il conflitto tra le due parti in Palestina e dintorni durò 200 anni. Di particolare interesse per Hamas è il Trattato di Ramleh concluso da Saladino e Riccardo Cuor di Leone il 1° settembre 1192. La tregua, che segnò la fine della Terza crociata, durò tre anni e tre mesi. Durante questo periodo, i crociati mantennero il controllo della costa da Giaffa a San Giovanni d'Acri e poterono visitare Gerusalemme e commerciare con i musulmani.
Inoltre, si fa spesso riferimento alla prima «hudna» della storia dell'islam. Conosciuto come «Al-Hudaybiyah», nome di un luogo alla periferia della Mecca dove fu concluso, questo accordo portò alla sospensione delle ostilità tra la comunità musulmana sotto la guida del Profeta e la tribù Quraysh della Mecca. La durata della «hudna» concordata tra le due parti era di dieci anni. Tuttavia, essa terminò in meno di due anni quando i Quraysh la violarono uccidendo illegalmente alcuni membri della tribù Khuza’ah, alleata dei musulmani. Una volta conclusa, la «hudna» è sacra e il rispetto dei suoi termini diventa un obbligo religioso. Finché la controparte la rispetta, i musulmani devono fare lo stesso. Romperla sarebbe un grave peccato. Come nel caso di altri trattati internazionali, la hudna è rinnovabile di comune accordo alla sua scadenza.
La «hudna» generale e a lungo termine proposta da Hamas prevede come prima condizione il ritiro di Israele ai confini del 4 giugno 1967, il che significa la restituzione di tutte le terre occupate dagli israeliani nella Guerra dei sei giorni, compresa Gerusalemme est. Inoltre, Israele dovrebbe rilasciare tutti i palestinesi dalle sue prigioni e dai suoi centri di detenzione. È altamente improbabile che Hamas accetti qualcosa di meno in cambio di una tregua a lungo termine che potrebbe essere di un quarto di secolo o più» (5).
Lo Stato di Israele vive di una guerra permanente contro gli arabi. È quindi altamente improbabile che accetti una tregua a lungo termine o che la rispetti se viene firmata. Se l'avanzamento della lotta palestinese costringerà lo Stato di Israele e i suoi sostenitori imperialisti ad accettare una tregua a lungo termine, ciò comporterà delle contraddizioni per Hamas, che cambierà il suo status da membro della Resistenza palestinese a quello di guardiano della tregua firmata con i suoi nemici.
È un diritto del popolo palestinese firmare una tregua o un altro tipo di accordo con il nemico sionista. Ma, nel farlo, è importante essere chiari sul suo significato, e le organizzazioni firmatarie hanno l’obbligo di dire al popolo palestinese la verità, ovvero che non ci si può fidare di alcun accordo con i sionisti a causa della natura razzista e segregazionista di questa enclave imperialista nelle terre arabe. Per questo i palestinesi e i loro alleati arabi devono essere sempre pronti a combattere finché esisterà lo Stato di Israele. Per avere la pace, è necessario porre fine allo Stato razzista e costruire una Palestina libera, dal fiume al mare.

 

Note

1) T. Cliff, «On the irresponsible handling of the Palestine question», in Swp Internal bullettin, vol. 9, n. 1, gennaio 1947. www.marxists.org/archive/cliff/works/1947/xx/palestine.htm

2) T. Cliff, A world to win: the life of a revolutionary, 2000, Bookmarks pubblications, p. 14 www.marxists.org/archive/cliff/works/2000/wtw/ch01.htm

3) G. Kanafani, The 1936-39 revolt in Palestine, 1972, Committee for a democratic Palestine.

4) A. Gordon, «What Israelis think of the war with Hamas», 10 novembre 2023, pubblicato sul sito web della revista Time. Solo l’1,8% della popolazione ebraica israeliana ritiene che i bombardamenti su Gaza siano eccessivi.

5) A. Tamimi, Hamas: a history from within, Olive Branch press, 2011, pp. 156-9.

 

*Questo articolo è stato scritto per la rivista teorica internazionale Marxismo Vivo e tradotto in italiano per Trotskismo Oggi

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