
Tutti gli analisti sostengono, non a torto, che le voci che hanno causato il panico per qualche giorno erano note già da tempo e che, a differenza del 2008, non erano avvenuti fatti clamorosi (crack “Lehman Brothers”) che potessero giustificare una simile ondata di panico. Osservazioni corrette, come dicevamo, ma incomplete. Il problema reale è che, a tre anni dall’inizio della Grande Recessione, non si vede nessuna via d'uscita.
Perdite virtuali, problemi reali
In una situazione simile, è ovvio che i mercati finanziari mondiali vivano in uno stato di perenne tensione. Le borse, di per sé, non creano ricchezza. Si limitano solo a trasferire tra le classi, al loro interno, tra gli Stati, la ricchezza prodotta dall’economia “reale”. Oggi, sui mercati, vige la regola del “si salvi chi può”. Se l’economia mondiale rischia di cadere di nuovo nella recessione, non deve stupire più di tanto che bastino messaggi scambiati via tweeter sulle difficoltà (al momento smentite) di una importante banca francese per terrorizzare le piazze finanziarie dei cinque continenti.
Per cercare di porre un limite a tutto ciò, i governi stanno cercando di correre ai ripari, perché se è vero che guadagni e perdite nei valori di borsa sono virtuali finché non si vendono o acquistano azioni, i problemi sono reali.
Se un’azienda, ad esempio, ha delle azioni che sono iscritte nel suo bilancio per un determinato valore, se questo cala, la perdita diventa concreta anche se non deve venderle. Sarà infatti costretta a rettificarne il valore. Potrà quindi vedere ridotti gli utili, o addirittura registrare una perdita, con conseguenze, ripetiamo, molto concrete, su variazioni meramente “virtuali”. Stesso discorso vale per banche, assicurazioni, ecc.
Stesso discorso vale per gli Stati. I rendimenti sui loro titoli, che il mercato pretende per acquistarli, diventano un problema non tanto per le variazioni che subiscono giorno per giorno (i governi non emettono titoli quotidianamente) ma perché, se non calano, rendono più oneroso il finanziamento nel momento in cui i titoli del debito pubblico sono emessi (ad esempio negli ultimi tre mesi del 2011 il governo italiano dovrà emettere sul mercato oltre 200 miliardi di titoli. Ogni punto percentuale in più che deve offrire a sottoscrittori costa alle casse pubbliche 15 miliardi l’anno).
Tra i tanti, il governo italiano si è distinto per aver annunciato il 13 agosto una nuova manovra di correzione dei conti pubblici che, sommata a quella varata lo scorso luglio, fa arrivare il totale all’astronomica cifra di 130 (secondo il quotidiano La Repubblica) o 200 (secondo Il Corriere) miliardi di euro per il triennio 2011/13.
In entrambi i casi, al di là dei differenti metodi di calcolo, dovuti alla complessità dell’analisi da fare, si tratta della più pesante finanziaria della storia di questo Paese.
E, come sempre, sono le classi subalterne a doverne pagare il prezzo. Aumento drastico dell’età pensionabile delle donne che lavorano nel privato (da 60 a 65 anni di età, che con i previsti adeguamenti dell’aspettativa di vita arriverà fino a 67); tagli agli Enti locali, con conseguente aumento diretto delle tasse (addizionale Irpef per regioni e comuni) o indiretto, con taglio o cancellazione dei servizi sociali di loro competenza; privatizzazioni e liberalizzazioni di aziende pubbliche locali; agli statali, che già hanno visto bloccato per quattro anni ogni aumento salariale, verrà posticipata fino a due anni la corresponsione del Tfr e bloccata la tredicesima se i loro dirigenti non rispetteranno i tagli alle spese previsti: pagheranno loro per colpe altrui!
Infine è stata prevista la morte definitiva, ex lege, del contratto nazionale: l’articolo 18 contro i licenziamenti illegittimi potrà essere derogato a livello di contrattazione aziendale, così come si potrà derogare senza nessun limite a ciò che prevedono i contratti di lavoro nazionali, destinati quindi a morire.
Non vengono toccati i grandi patrimoni e le rendite (tassate solo al 20%). Per i redditi maggiori è previsto un modesto contributo temporaneo, che però potrà essere dedotto in sede di dichiarazione dei redditi.
E l’opposizione liberale? Berlusconi ha già annunciato che molto probabilmente non verrà posta la fiducia al decreto legge, perché l’opposizione si sta dimostrando “responsabile”. E questo spiega già molto. Quanto alla cosiddetta sinistra radicale (Sel di Vendola e Fed di Ferrero), si lamenta, ma legata come è alla volontà di costruire un’alleanza di centrosinistra vincente alle prossime elezioni, è prevedibile che non andrà oltre il lamento.
Per quanto riguarda la Cgil, apparentemente in queste ore sembrerebbe aver modificato atteggiamento. La Camusso ha bocciato la manovra e annunciato uno sciopero generale per settembre. Per la verità il comunicato della segreteria confederale del 19 agosto parla genericamente di un appello alla mobilitazione, senza entrare nel dettaglio. Pensiamo comunque che lo sciopero sia probabile. Ma ciò non deve trarre in inganno riguardo una inesistente svolta radicale del maggior sindacato italiano. Anzi. La proclamazione dello sciopero sarebbe, per certi versi, un passo obbligato, considerando le pressioni che, in questi mesi, sono venute dal mondo del lavoro. Tentennamenti di fronte a un attacco inaudito come quello preparato da Berlusconi rischierebbero di causare una vera e propria sollevazione contro la Cgil.
Inoltre le decisioni annunciate riguardo i contratti di lavoro mettono seriamente in gioco l’esistenza stessa del sindacato di Corso Italia che fa del carattere nazionale e confederale dell’organizzazione la sua stessa ragion d’essere. Un conto, infatti, è lasciare al sindacato la possibilità di derogare ai contratti nazionali (come fa l’accordo del 28 giugno), altra cosa è stabilirlo per legge, scavalcando, nei fatti, i sindacati. Quindi in quello che appare come un tardivo risveglio, determinante è la volontà di conservazione del mastodontico apparato burocratico sindacale. Cosa che sarà fatta dai vertici della Cgil, come sempre, mimando una reazione di piazza (uno sciopero il più possibile sterilizzato) col duplice scopo di non essere scavalcati dalle masse e di poterne vantare il controllo al tavolo concertativo con governo e padronato.
Il che non toglie, ovviamente, che nel caso lo sciopero generale venga indetto, dovere dei settori d’avanguardia del mondo del lavoro è quello di lavorare per la sua riuscita e per la sua estensione. Proprio per impedire l’ennesima innocua passerella auto-celebrativa, come lo sono stati gli ultimi scioperi di quattro ore, senza manifestazione nazionale, è necessaria una mobilitazione unitaria di tutto il mondo del lavoro, superando auto-recinzioni settarie imposte fin qui dai vertici del sindacalismo di base. Devono essere convocate assemblee in ogni luogo di lavoro per spiegare le conseguenze che le decisioni del governo avranno sulle condizioni di vita di milioni di persone. Ci si deve opporre all'uso dello sciopero come sostegno alla pseudo-contro manovra avanzata dal Pd, che sta avendo il plauso di importanti settori della borghesia italiana (De Benedetti e banchieri vari). Vanno smascherate le illusioni (diffuse a piene mani anche dalla sinistra governista al momento esclusa dal parlamento) che un eventuale governo di centrosinistra possa fare in campo economico scelte a favore dei lavoratori e dei ceti sociali più deboli. Anche senza ricordare le due esperienze dei governi Prodi, la attuale esperienza di Milano, dove la giunta Pisapia (col sostegno determinante del Pd e l'accodarsi, con l'eccezione nostra, di tutta la sinistra, dai riformisti ai centristi) ha aumentato le tasse sul reddito e il costo dei trasporti pubblici e si appresta a tagliare servizi; o l'esperienza ormai consolidata della Puglia, dove il “narratore” Vendola si è rifiutato di abbassare le tariffe del servizio idrico, in barba al risultato referendario, dimostrano quanto sia illusoria, nel capitalismo, l’idea di governi nazionali e locali che non tutelino le esigenze del profitto e del mercato.
Sciopero a oltranza fino al ritiro della manovra e alla cacciata del governo, no ai licenziamenti, scala mobile dell’orario di lavoro fino all’assorbimento della disoccupazione, assunzione a tempo indeterminato di tutti i lavoratori precari, salario minimo intercategoriale, diminuzione dell'età pensionabile e aumento delle pensioni in relazione al carovita, permesso di soggiorno per tutti gli immigrati con pari diritti politici e sociali dei lavoratori nativi, servizi pubblici gratuiti, occupazione ed esproprio sotto controllo operaio delle imprese che chiudono, licenziano o utilizzano la cassa integrazione, esproprio delle banche private e costruzione di una banca unica di Stato. Questi sono alcuni dei capisaldi di un programma di vera lotta al governo: l'unico programma in grado di affrontare realisticamente la crisi in atto senza che a pagarla siano i lavoratori. Un programma su cui costruire comitati di lotta nei luoghi di lavoro e una grande mobilitazione di massa che punti non solo a cacciare Berlusconi ma anche a impedire che sia sostituito da un altro governo padronale: per una vera alternativa di potere dei lavoratori.
Oggi ci troviamo ad un punto di svolta della storia dei rapporti tra le classi. La misura è colma, i proletari, nei cinque continenti, hanno finito la loro pazienza. Dopo le rivoluzioni arabe, come avevamo previsto da tempo, ha iniziato a incendiarsi anche l'Europa. Quello che si avvicina può essere, finalmente, un vero autunno caldo, in cui i lavoratori tornino a essere padroni del loro destino.